La ripartenza post-Covid impone cambiamenti e spinge la digitalizzazione, anche nell’Editoria

Il Covid-19 ha cambiato il mondo. E il business, pure. O, forse, il modo di fare business, di immaginarlo.

Un cambiamento al quale nessuno sfugge, soprattutto l’Editoria: già da tempo alle prese con un enorme passaggio verso il digitale che rappresenta, ormai da decenni, la vera sfida per ogni società di questo straordinario, ma difficile, settore.

Quella che fino a qualche tempo fa veniva considerato un periodo di “transizione” ma che oggi è ormai diventata una fase strutturale. A distanza di tanti anni non è ancora stato trovato un modello di business che possa davvero definirsi vincente o ideale, a livello globale.

Non ci sono “standard” da seguire o raggiungere ma solo buone pratiche o tendenze.

Tutti i grandi editori, a livello mondiale, hanno affrontato (o, meglio, stanno affrontando) questa sfida, ognuno a modo suo. Sperimentando, innovando, testando, e scoprendo soluzioni: spesso velleitarie, altre volte no. Ma con diversi casi di successo, che fanno da contraltare ai molteplici fallimenti (spesso anche in senso letterale, cioè societario).

Evitiamo qui di ricordare, evitando di indurre tristezza, i vari casi di crack finanziario da parte di grandi e piccoli editori che non sono sopravvissuti al cambiamento per concentrarci, semmai, sulle ben più liete storie di successo. Come quella del Financial Times che, come tutti ormai sapranno, è riuscito a superare il milione di abbonati alla sua versione digitale, riaprendo il dibattito sul tema del cosiddetto “paywall”, cioè l’introduzione di un abbonamento a pagamento per i contenuti online, che secondo molti analisti era da ritenere fin da principio la soluzione più ovvia, anche se molti editori e giornalisti hanno spesso tentennato, nel corso del tempo, prima di ricorrere a questa soluzione.

Anche di fronte alla sempre più importante impronta del Seo che ormai condiziona praticamente ogni scelta, sul digitale. Sì, perché se da un lato ristringere il campo ai soli abbonati può consentire di generare ricavi dagli abbonamenti, dall’altro si può correre il rischio di perdere lettori che possono essere facilmente acquisiti da altri giornali (visto che la concorrenza è piuttosto spietata, nel campo) dove non ci sono barriere di accesso oppure dove i costi sono minori.

E a quel punto, peraltro, il fatto di aver circoscritto la propria visibilità a un numero più contenuto di utenti, può tradursi anche in un freno della indicizzazione e divulgazione dei contenuti, perché nell’era dei social network, dove le notizie devono già convivere con le fake news, si aggiunge anche l’ulteriore ostacolo dell’impossibilità di condividere una news ad accesso limitato.

Ed è proprio questo il punto critico (anche se non l’unico) che fa vacillare gli editori, alimentando le riflessioni sulla sostenibilità del giornalismo al giorno d’oggi e, soprattutto, di quello digitale. Visto che, diciamola tutta, la remunerazione nell’ambiente online, è una sfida per ogni settore, al di fuori del puro e-commerce.

Tra i casi di successo, per esempio, si può citare anche quello del Ny Times, che nei giorni scorsi ha stupito tutti nel presentare il suo nuovo format di inchieste digitali (Leggi qui), in grado di offrire un coinvolgimento totale ai lettori nella storia, utilizzando in maniera combinata testi, video e audio, con una soluzione all’avanguardia della tecnologia.

Già, ma a quale costo? Si domanderà più di qualcuno.

Sì perché è evidente a tutti che una soluzione di questo tipo richiede investimenti colossali per un editore che le difficoltà nella generazione delle revenue di cui sopra rende difficili da coprire. Non solo.

Per chi frequenta le redazioni dei giornali e conosce un minimo le dinamiche di un giornale, si interrogherà, prima ancora degli aspetti economici, su quelli temporali. Ovvero: quanto tempo richiede costruire e pubblicare un inchiesta di quel tipo tenendo conto della complessità nella costruzione del “pezzo”?

Tutto questo in un contesto in cui l’immediatezza della notizia rappresenta da sempre la chiave per il successo di una testata. E’ dunque evidente che si tratta di un format da dedicare esclusivamente ad alcuni casi speciali e, al limite, agli approfondimenti più specifici.

Ma di nuovo: vale la pena?

Di certo, non per una testata specializzata che si rivolge a una determinata nicchia: o, almeno, non per tutte. Da qui la difficoltà del caso.

Fermo restando tuttavia, come anticipato, che nessuno può dire di avere in mano la ricetta perfetta da poter applicare, imitare o seguire in tutte le attività editoriali (altrimenti non saremo neanche qui a parlarne), è del tutto evidente che la chiave del successo è sempre legata al contenuto e alla specializzazione, nel caso dell’editoria B2B.

Se si vuole evitare la perdita di lettori a scapito di altri giornali, è evidente, il nostro giornale online dovrà distinguersi per qualità dell’informazione ma anche per le modalità di presentazione delle notizie. Più in generale, il giornale di oggi (e di domani, soprattutto) dovrà avere capacità di penetrazione sugli utenti. Riuscendo a scorgere in anticipo quello che desidera un lettore. O come vorrebbero ricevere determinati contenuti.

Tutto questo non è impossibile, anzi: la soluzione è racchiusa nell’applicazione della cosiddetta Intelligenza artificiale (AI), che detta così fa quasi paura, ma in realtà si declina in strumenti e soluzioni software molto più semplici da utilizzare una volta che si è presa la minima dimestichezza del caso.

In questo senso, come sempre accade, chi ci ha investito per tempo sulla digitalizzazione puntando alla piena multicanalità (la vera sfida di ogni settore industriale, oggi) sta già raccogliendo i frutti e i grandi giornali prima citati ne sono una prova. Ma non sono certo gli unici.

Non deve infatti sfuggire che se il quotidiano britannico Financial Times, ha raggiunto il milione di abbonati digitali addirittura con un anno prima rispetto alle già rosee previsioni, non è soltanto per via dell’effetto “wow” ottenuto dalla sua offerta digitale, tra le prime di alto livello nel settore, ma si è trattato, al contrario, di un lunghissimo percorso, durato addirittura diciassette anni e passato anche per diverse sperimentazioni (prima l’abbonamento in prova per un mese, quindi il prezzo ridotto a partire dal 2015) per costruire un pubblico pagante di queste dimensioni (quando si dice un investimento a lungo termine!).

Il tutto, però, sempre accompagnato dalla qualità, come ha sempre sottolineato l’amministratore delegato del gruppo editoriale, John Ridding, imputando questo successo “al modello di abbonamento e all’investimento nella trasformazione digitale, oltre che a un giornalismo autorevole in un’epoca di notizie false”.

Tutto questo, però, utilizzando anche e soprattutto l’intelligenza artificiale. Come del resto accade in qualunque altro settore, con l’intera economia ormai gestita – direttamente o indirettamente – da algoritmi. Troppo semplice citare gli esempio di Netflix, Amazon, Google e così via, volendo sempre restare nell’editoria (dove peraltro, non a caso, intervengono anche molti di questi colossi che intendono accalappiarsi anche il ramo editoriale).

Negli ultimi 17 anni, i giornalisti del Ft hanno lavorato soprattutto sull’analisi e l’interpretazione dei comportamenti degli utenti, profilandone gli interessi, le abitudini e la profondità di lettura. In modo da poter ricavare informazioni non utili ma fondamentali per costruire un giornale (digitale) sempre più incentrato attorno alle loro esigenze.

Per una pubblicazione quasi su misura. Variando la tipologia degli articoli e introducendo vari format  che potessero attirare lettori anche molto diversi fra loro. Come l’esempio divenuto celebre del video-reportage sugli effetti della Brexit al confine irlandese: “Brexit: a cry from the Irish border” in cui Stephen Rea recita un testo di Clare Dwyer Hogg, in un contenuto tra il giornalistico e il teatrale, in entrambi casi, di grande qualità.

Ma non è tutto. Sì, perché il gruppo editoriale, a supporto di questa strategia, ha anche supportato il passaggio al digitale organizzando eventi live, spettacoli, e ha investito nella formazione, creando corsi di giornalismo, per studenti e insegnanti, in modo da coltivare e stimolare una nuova generazione di lettori, automaticamente affezionati. Puntando però anche all’ampliamento del parco lettori, potendo sapere con esattezza quali fasce della popolazione non riusciva a raggiungere o soddisfare, proprio grazie all’intelligenza artificiale.

Insomma, la tecnologia è l’unica arma a disposizione degli editori per affrontare e gestire il cambiamento, che è destinato a essere sempre più rapido nei prossimi mesi. Sulla spinta della pandemia, che promette di accelerare fortemente il processo di digitalizzazione, e grazie anche all’introduzione di nuove tecnologie, anche nel nostro paese, che promettono di ridurre il digital divide.

Come il tanto chiacchierato 5g o la stessa fibra ottica (meglio tardi che mai). Un effetto, questo, che promette un’ulteriore rivoluzione, in tempi relativamente stretti, che deve suonare la sveglia a tutti gli editori. Sì, perché oltre a dover conquistare il pubblico dei giovani e giovanissimi di oggi, che ormai vivono di soli smartphone, come fotografato ampiamente anche dall’ultimo rapporto dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni – AGCOM (nello studio: “L’informazione alla prova dei giovani”) in cui certifica – testualmente – “la fuga delle nuove generazioni dai mezzi tradizionali – evidentemente legata a un’offerta che non soddisfa le esigenze informative dei più giovani – e una vera e propria dipendenza tendenziale verso una sola fonte informativa, la rete”, anche i lettori abituali sono ormai soggetti alla digitalizzazione globale di ogni tipo di offerta e iniziano già a manifestare l’esigenza di nuove esperienze, anche nella fruizione delle notizie.

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E’ giunto dunque il momento di rimboccarsi le maniche e di provare ad affrontare (sul serio) la sfida digitale, anche per gli editori tradizionali.

E se i 17 anni di ricerca e sviluppo del Financial Times possono spaventare chiunque, va anche detto che i tempi sono cambiati ed evoluti anche in questo (beati gli ultimi, verrebbe da dire) e l’accelerazione verso il digitale vale anche per chi deve investire.

Provando anche ad approfittare dei vari incentivi che sono stati (e dovranno essere) messi in campo dal governo per favorire la ripartenza dopo la pandemia, che mettono al centro proprio la tecnologia. Guardando anche all’attesissimo Recovery Fund.

Per comprendere, studiare e analizzare tutto questo (e molto di più) esiste ANES Digital.