Rimozione dei contenuti diffamatori. La sentenza (poco) rivoluzionaria della Corte di Giustizia
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea dice sì alla rimozione di commenti illeciti pubblicati su Facebook
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea (“CGUE”), nella causa C-18/18, ha imposto a Facebook di rimuovere contenuti identici o equivalenti ad un commento precedentemente dichiarato illecito dallo stesso giudice.
Vediamo perché il colosso di Menlo Park ha poco da temere.
Il fatto
La controversia nasceva dopo che un utente pubblicava sulla sua pagina personale di Facebook un articolo giornalistico intitolato «I Verdi: a favore del mantenimento di un reddito minimo per i rifugiati». La condivisione dell’articolo veniva accompagnato da frasi ingiuriose e diffamatorie, nonché dalla fotografia della Sig.ra Eva Glawischnig Piesczek, deputata alla Camera dei rappresentanti del Parlamento austriaco, nonché presidente del gruppo parlamentare dei Verdi.
A seguito del rifiuto opposto da Facebook di rimozione del contenuto considerato illecito, la sig.ra Piesczek otteneva dai giudici austriaci un ordine inibitorio con il quale ordinavano al social network americano di eliminare non solo il commento incriminato, ma anche contenuti identici ed equivalenti a quello diffamatorio.
La questione arrivata fino alla Corte suprema, è stata poi rimessa alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea al fine di chiarire la compatibilità di tale ingiunzione con la Direttiva 2000/31/CE (la c.d. “Direttiva e-Commerce”).
L’esenzione della responsabilità dell’hosting provider ai sensi della Direttiva E-commerce
Prima di analizzare le questioni pregiudiziali sottoposte all’attenzione del giudice europeo, occorre ricordare che la responsabilità degli Internet Service Providers (ISP) è regolata dalla Direttiva e-Commerce, implementata in Italia con il Decreto Legislativo n. 70/2003.
In particolare, l’articolo 14, comma 1 della Direttiva E-Commerce prevede che il prestatore di un servizio della società dell’informazione consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio (il c.d. “hosting provider”) non sia responsabile dei contenuti pubblicati dagli utenti a condizione che
- non sia a conoscenza dell’illiceità dei contenuti, o
- non appena ne venga a conoscenza, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso.
Tuttavia, il terzo comma della norma ammette la possibilità che un organo giurisdizionale, in conformità̀ agli ordinamenti giuridici degli Stati membri, esiga che l’hosting provider ponga fine ad una violazione o la impedisca.
Inoltre, l’articolo 15 della Direttiva e-Commerce chiarisce che i prestatori di servizi di hosting provider non sono soggetti ad un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmettono o memorizzano né ad un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite.
La decisione della Corte
Chiarito il perimetro giuridico, la CGUE ha interpretato tali norme in un modo in un certo senso estensivo, confermando quanto già sostenuto dai giudici nazionali.
In particolare, il giudice europeo ha statuito che la Direttiva e-Commerce non preclude la possibilità per i giudici nazionali di chiedere a un hosting provider la rimozione di informazioni da esso memorizzate e il cui contenuto sia identico e/o equivalente a quelle già precedentemente dichiarate illecite o di bloccare l’accesso alle medesime.
Quanto al concetto di “equivalenza” delle informazioni illecite, la CGUE chiarisce che “l’illiceità del contenuto di un’informazione non è di per sé il risultato dell’uso di alcuni termini, combinati in un certo modo, ma del fatto che il messaggio veicolato da tale contenuto è qualificato come illecito, trattandosi, come nel caso di specie, di dichiarazioni diffamatorie aventi ad oggetto una determinata persona”.
Di conseguenza, affinché un’ingiunzione volta a fare cessare un atto illecito e ad impedire il suo reiterarsi deve potersi estendere alle informazioni il cui contenuto, pur veicolando sostanzialmente lo stesso messaggio, sia formulato in modo leggermente diverso, a causa delle parole usate o della loro combinazione, rispetto all’informazione il cui contenuto sia stato dichiarato illecito.
La sentenza in commento ha suscitato molte reazioni, anche fin troppo entusiastiche, spingendo alcuni a sostenere come la pronuncia costituisca una crepa nel muro del principio c.d. “no monitoring obligation” di cui all’art. 15 delle Direttiva e-Commerce.
Le cose non stanno esattamente così. Infatti, la Corte, ben consapevole dell’importanza del principio summenzionato, limita l’estensione dell’obbligo di rimozione oggetto di un’ingiunzione del giudice nazionale a contenuti che siano comunque sostanzialmente invariati rispetto a quello che ha dato luogo alla dichiarazione d’illiceità .
Peraltro, l’ordine del giudice deve chiaramente indicare gli estremi di un possibile contenuto equivalente a quello illecito, specificando (i) il nome della persona che ha subito la violazione, (ii) le circostanze cui è stata accertata tale violazione, (iii) nonché un contenuto equivalente a quello dichiarato illecito.
Tali informazioni, dunque, devono essere accurate e sufficientemente dettagliate, così da non costringere il prestatore di servizi di hosting provider ad effettuare una valutazione autonoma del contenuto di cui si chiede l’eliminazione. Se così non fosse verrebbe in qualche modo aggirato il principio di cui all’art. 15 della Direttiva e-Commerce, imponendo, di fatto, un obbligo di monitoraggio e sorveglianza in capo all’hosting provider.
La CGUE ha, infine, ammesso che l’ingiunzione possa produrre effetti a livello mondiale.
Conclusioni
Le argomentazioni poste dalla CGUE hanno sicuramente il pregio di tentare di arginare gli effetti devastanti che possono derivare dalla condivisione di contenuti illeciti su un social network, la cui velocità di veicolazione non è naturalmente comparabile al suo accertamento giudiziale.
Agire in giudizio per la rimozione di contenuti pressoché identici a quelli già dichiarati illeciti, sarebbe un aggravio inutile e doloroso per chi ha subito la violazione.
Tuttavia, la pronuncia è meno rivoluzionaria di quello che appare a priva vista. Da un lato, infatti, l’interpretazione del concetto di equivalenza è molto restrittiva, dall’altro, l’individuazione del perimetro dei possibili contenuti illeciti equivalenti è rimesso all’autorità giudiziaria, la quale deve indicare chiaramente gli estremi di un possibile contenuto illecito.
Peraltro, la giurisprudenza di legittimità italiana si era già espressa in modo simile, seppur in relazione a contenuti pubblicati in violazione del diritto d’autore. Ci riferisce, in particolare, alla sentenza della Corte di Cassazione italiana n. 7708/2009 (RTI/ Yahoo!), nella quale Yahoo! Italia era destinataria di “un obbligo di astenersi di pubblicare contenuti illeciti dello stesso tipo di quelli già riscontrati come violativi dell’altrui diritto”.
I social network sono sempre stati tanto attivi nella rimozione di contenuti “postati” in violazione del copyright, quanto restii a fare lo stesso per messaggi di carattere diffamatorio, paventando un possibile rischio di censura e di limitazione della libertà di espressione dei propri utenti.
Vedremo se questa pronuncia ammorbidirà la loro posizione.
Avv. Pasquale Distefano – Ughi e Nunziante Studio Legale
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